Myanmar, speranze per Aung San Suu Kyi: arriva la grazia (parziale)

Perdonate 5 delle 19 condanne a carico di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace nel 1991
Myanmar: speranze per Aung San Suu Kyi, arriva la grazia (parziale)

Ancora controverse le voci sul rilascio della politica birmana Aung San Suu Kyi, che – a detta del Ministro degli Esteri thailandese Dom Pramudwinai – gode di buona salute fisica e mentale nonostante l’isolamento di un anno in carcere nella capitale Naypydaw.

L’amnistia concessa in occasione di una festività buddhista vede coinvolti anche 7.000 prigionieri. Ma il Myanmar resta scenario di guerre civili e massacri indiscriminati da parte dell’esercito, inaspriti dopo il golpe del 1° febbraio 2021, in cui le forze armate birmane sono salite al potere con un colpo di stato, arrestando la leader birmana e molti altri esponenti di spicco del suo partito – League for Democracy.

La popolazione ha messo in atto una resistenza armata senza precedenti, che ha visto uniti gli eserciti etnici con il braccio armato del governo clandestino costituitosi dopo il golpe. Un Paese dilaniato dai conflitti, preda di uno stato di emergenza rinnovato dall’esercito ogni sei mesi, privato del turismo e degli investimenti stranieri, dove la giunta militare cerca maldestramente la credibilità del popolo costruendo un Buddha gigante nella capitale.

Un’economia al collasso, con un tasso di disoccupazione pari al 40%, che si somma all’inflazione. Non si contano gli sfollati, che secondo l’Onu sarebbero oltre il milione, costretti a vivere in condizioni disastrose. 11mila i morti. Una “guerra dimenticata”, a detta di Tom Andrews, investigatore indipendente delle Nazioni Unite, che denuncia la mancanza di attenzione dei media internazionali.

Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari senza essere processata

Dopo il ritiro della coalizione NATO dall’Afghanistan e la crescita esponenziale delle tensioni in Ucraina, l’ex Birmania viene percepita come un Paese lontano. Ma non è così. Allungata nell’Asia sud-orientale tra India e Cina, ricchissima di risorse proprio come l’Afghanistan, è stata anch’essa – dal 1989 in poi, anno in cui la giunta militare è salita al potere ed ha confinato Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari senza averla processata – terreno di scontro tra una dittatura interminabile e una democrazia che fatica ad affermarsi.

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L’astensione al voto di Pechino e Mosca – maggiori sostenitrici dei golpisti – sulla risoluzione ONU per liberare tutti i prigionieri e porre fine alle violenze lancia un segnale forte ai generali birmani.

“La democrazia è esposta a sempre più minacce di questi tempi, ma in pochi luoghi con la stessa drammaticità e brutalità a cui assistiamo nel Myanmar.” (Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE).

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