Un’inchiesta del The Times ha fatto emergere una situazione allarmante: 140 biblioteche di ateneo inglesi hanno messo al bando alcuni tra i capolavori della letteratura inglese e mondiale: è il fenomeno passato sotto il nome di “Cancel culture” (Cultura della cancellazione) Charles Dickens, William Shakespeare, Virginia Woolf, Jane Austen, Charlotte Brontë, Agatha Christie, e persino il premio Pulitzer, Colson Whitehead, autore di The Underground Railroad – che gli valse il citato premio – sono solo alcuni degli autori “ostracizzati”, stavolta non da un potere politico ma – paradosso dei paradossi – dalle istituzioni culturali per eccellenza che tale cultura dovrebbero preservare e diffondere: le Biblioteche e le Università.
Ma come si spiega il fenomeno? Mero politically correct o reale battaglia politica attraverso l’uso (scorretto) della cultura?
Cancel culture: Clistene nell’era del “politically correct”
Con il termine “Cancel culture” si intende una serie di azioni mirate a cancellare la memoria di luoghi, cose, persone, eventi: una sorte di damnatio memoriae, ma non vincolata ad una decisione politica “dall’alto” (è ben nota quella di Nerone operata dal Senato nel 68 d.C, alla morte dell’imperatore), bensì “dal basso”.
L’inchiesta del The Times è uscita in data 10 agosto 2022 con il titolo Universities black list “harmful” literature (tradotto: la “black list” universitaria delle opere letterarie “dannose”), nella quale alcuni autori – quelli citati in precedenza, tra i più noti – vengono etichettati, per l’appunto, come “dannosi”.
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Oliver Twist di Charles Dickens avrebbe la condanna di trattare l’abuso sui minori; A Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezza estate) di William Shakespeare sarebbe invece un’opera “classista”; Virginia Woolf tacciata di “razzismo” perché ricorre eccessivamente alle espressioni “negro” o a descrizioni offensive quando tratta delle popolazioni indigene dell’Africa (“pelle nera come quella di una scimmia”).
Così The Underground Railroad (La ferrovia sotterranea) di Colson Whitehead, vincitore del premio Pulitzer è messo a tacere a causa delle sue descrizioni troppo incisive della schiavitù e della violenza insita nelle tensioni razziali; infine, Fröken Julie (La signoria Giulia) dello scrittore svedese August Strindberg affronta la tematica (tabù) del suicidio.
L’azione delle biblioteche di ateneo inglesi, pertanto, sarebbe apparsa come una revisione a tutela dei suoi giovanissimi lettori e ricercatori: non una censura, ma la risposta ad un “bisogno degli studenti e della società”. Peccato, però, che gli stessi studenti abbiano manifestato un forte dissenso per tale decisione lamentando una privazione nell’esercizio della propria libertà di pensiero, considerato che il divieto riguarda non solo la lettura ma anche la discussione delle suddette opere e tematiche.
Verrebbe da pensare che questi capolavori della letteratura inglese e non solo, siano stati posti davanti ad una vera e propria opera di ostracizzazione – pratica ideata da Clistene nel VI secolo a.C., consistente nell’esilio di personaggi ritenuti un “pericolo pubblico” – con la differenza, tuttavia, che anche nella Grecia di VI secolo a.C, una componente “democratica” era pur sempre mantenuta attraverso la “messa al voto” del cittadino su appositi ostraka (frammenti di terracotta).
E, dunque, qual è il reale motivo dietro questa moderna – seppur circoscritta – forma di damnatio memoriae?
Cancel Culture: così si autocondanna il mondo all’oblio
Il fenomeno della cancel culture non può essere circoscritto geograficamente al territorio anglossassone: il 25 maggio 2020, a Minneapolis, veniva ucciso dalla polizia, brutalmente e senza pietà, l’afroamericano George Floyd, con un ginocchio puntato sulla nuca per 9 minuti e 29 secondi.
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L’ondata di proteste antirazziali al grido di “Black Lives Matter!” (“Le vite nere contano!”) ebbe una risonanza mediatica notevole, tanto sui vecchi che i sui nuovi media, ma innescò una serie di comportamenti che colsero nel mirino anche il patrimonio pubblico: in particolare, la distruzione di monumenti che rappresentassero “suprematisti” bianchi, incluso Cristoforo Colombo, le cui azioni avessero portato alla sottomissione (o umiliazione, spesso) delle comunità targate come “minori”.
Quasi come se la cancellazione dell’oggetto ne potesse cancellare simultaneamente l’evento correlato: la cancel culture diventa, allora, agli occhi dei suoi artefici strumento politico oltre che politica di strumentalizzazione. Ma a uscirne sconfitta, alla fine, è solo lei, la cultura: il mondo, così, rischia di cadere nel baratro dell’oblio e ripetere, una volta ancora, gli stessi errori.