Proteste in South Dakota contro Trump
In occasione dei festeggiamenti del 4 luglio Donald Trump si è recato al Mount Rushmore, il complesso scultoreo situato nel Dakota del Sud raffigurante i volti di quattro ex presidenti americani. Nel luogo simbolo degli Usa il presidente ha dichiarato: “È in atto una campagna impietosa per spazzare via la nostra storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e indottrinare i nostri figli”. Trump si riferiva al movimento nato nelle ultime settimane per rimuovere dalle strade e dalle piazze americane i simboli del razzismo e del passato coloniale. In realtà i nativi americani da anni chiedono che il monumento nella roccia sia smantellato.
I motivi delle critiche
La sua visita ha ricevuto diverse contestazioni. I Sioux sono sul piede di guerra temono infatti che la presenza del Presidente possa comportare un focolaio di Covid-19 nelle loro riserve. Accusano inoltre Trump di non aver chiesto il permesso dei sette governi locali, violando gli storici trattati tra il governo Usa e i nativi americani per governare le Black Hills.
Alcune proteste hanno quindi anticipato l’arrivo di Donald Trump, facendo precipitare la situazione. I manifestanti, fra i quali i nativi americani, hanno bloccato una della strade principali per l’accesso a Mount Rushmore. La polizia e la Guardia Nazionale sono intervenute. Secondo indiscrezioni sarebbe stato usato anche spray al peperoncino per sedare la protesta.
Il controverso oleodotto e la battaglia degli ambientalisti
La pioggia di critiche però non è legata solo agli ultimi due fattori scatenanti. La controversa questione sull’oleodotto Dakota
Access non si arresta. La costruzione del Dapl (Dakota Access Pipeline) rappresenta una minaccia per l’approvvigionamento d’acqua e viola una terra considerata sacra. Ed è per questo che ambientalisti e abitanti del luogo stanno portando avanti una battaglia dal 2016. Lo scopo è impedire l’ennesimo scempio ambientale. A marzo 2020 il tribunale federale di Washington ha revocato i permessi all’oleodotto (intanto già operativo). Ma la polemica non si è esaurita. La società statunitense di condutture Energy Transfer, responsabile dell’espansione del controverso oleodotto, ha invocato la clausola di “forza maggiore” per impedire alle aziende petrolifere di tirarsi indietro rispetto al progetto di ampliamento dell’infrastruttura. Tale clausola si richiede in caso di eventi impossibili da prevedere e di grande portata. Questo permetterebbe a chi la invoca (in questo caso la società Energy Transfer) di sospendere, rinviare o essere liberata dai suoi doveri contrattuali senza alcuna responsabilità. È una mossa per prendere tempo in attesa di ottenere le approvazioni normative e intanto non permettere ai partner del progetto di venir meno ai loro impegni.
Gli ultimi risvolti
La volontà di espandere addirittura l’oleodotto sembra essere in contrasto con il forte calo della produzione di petrolio negli Stati Uniti dopo la pandemia di coronavirus. La portavoce dell’azienda, Lisa Coleman, ha però dichiarato di aver ricevuto “manifestazioni d’interesse tali da decidere di aumentare la capacità dell’oleodotto”. Gli ambientalisti comunque non ci stanno e hanno presentato istanze legali, mentre la maggioranza dei partner del progetto rifiutano di commentare la controversia.
La burrasca in South Dakota è quindi in precipitoso aumento e non accenna a placarsi nei prossimi giorni. I cittadini americani attendono delle risposte convincenti e risolutive da parte delle istituzioni.