Strage di via d’Amelio: 28 anni fa l’attentato in cui perse la vita il giudice Borsellino

Borsellino e Falcone

Borsellino, il magistrato che sfidò Cosa Nostra

Il 19 luglio del 1992 – esattamente 28 anni fa – il giudice Paolo Borsellino, assieme ai 5 agenti della scorta, viene assassinato in via d’Amelio, presso cui si era recato per far visita alla madre e alla sorella.
L’uccisione, così come quella del collega e amico Giovanni Falcone, porta la firma di Cosa Nostra.
Il magistrato nacque nel 1940 a Palermo, laureandosi in Giurisprudenza nel 1962. A partire dal ’75 iniziò la sua collaborazione con Rocco Chinnici, il quale lo incluse nel noto Pool antimafia che dal 1980 condusse una spietata guerra contro il crimine organizzato; è in questo contesto che Borsellino conobbe il giudice Falcone, con cui intraprese un importante sodalizio sul piano professionale, ma anche e soprattutto sul piano umano.
Particolarmente celebre fu il periodo di confinamento dei due magistrati presso il carcere dell’Asinara (per ragioni di sicurezza), avvenuto nell’estate dell’85, durante il quale essi ebbero modo di stilare un’ordinanza di circa 8.000 pagine che rinviava a giudizio quasi 500 indagati. Il risultato dell’ingente lavoro svolto dal Pool si concretizzò nel febbraio del 1986, quando ebbe inizio il Maxiprocesso di Palermo, conclusosi a dicembre dell’anno successivo con ben 342 condanne. Successivamente, egli ottenne la nomina di Procuratore della Repubblica a Marsala, tornando poi nel ’91 a Palermo nella veste di procuratore aggiunto.
Nei mesi di maggio e di luglio del 1992 si consumò, come era prevedibile, la tragedia: il 23 maggio perse la vita, in un attentato nei pressi di Capaci, Giovanni Falcone (assieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti della scorta); a luglio, nella strage di via d’Amelio, la stessa sorte toccò a Borsellino.
I nomi di Borsellino e Falcone rappresentano, oggi più che mai, i capisaldi della lotta contro la criminalità e la mafia.

L’attentato a Borsellino e le indagini

Strage di via d'Amelio
Strage di via d’Amelio (foto dal web)

Alle 16:58 del 19 luglio 1992, una Fiat 126 imbottita di tritolo fu fatta esplodere in corrispondenza del passaggio del giudice, che si trovava in via d’Amelio con la propria famiglia per far visita alla madre e alla sorella. Dei sei agenti della scorta se ne salvò solo uno, Antonino Vullo, che in quel preciso momento stava parcheggiando uno dei veicoli.
La famiglia di Borsellino non volle celebrare i funerali di Stato, in quanto la moglie Agnese riteneva il governo colpevole di non aver adeguatamente protetto il marito. Nonostante ciò, di fronte alla chiesa in cui venne celebrata la funzione si radunò una folla di 10.000 persone.
I giorni seguenti alla strage furono caratterizzati da forti tensioni. Le indagini vennero affidate ad Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo, ma la sensazione che emerse nei corso dei vari processi (Borsellino uno, bis, ter e quater) fu una totale mancanza di trasparenza da parte di quell’organo che Borsellino stesso rappresentava con grande orgoglio: gli attentati ai membri del Pool, infatti, non sembravano riconducibili esclusivamente a Cosa Nostra. Troppi misteri affiorarono durante le inchieste. Uno su tutti, quello relativo alla celebre agenda rossa, nella quale Borsellino, da tempo, annotava qualsiasi cosa gli accadesse, e che scomparve misteriosamente in seguito all’attentato. Le sentenze che chiusero i vari processi condannarono, di volta in volta, pentiti e mafiosi i quali, col senno di poi, appaiono sempre di più come delle “marionette azionate da un burattinaio evanescente”.

Strage di via d'Amelio
Strage di via d’Amelio (foto dal web)

La Corte d’Assise stessa, al termine del Borsellino quater, definisce la strage di via d’Amelio come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. A rafforzare ciò vi è il fatto che, ad oggi, alcuni poliziotti ed ex pm di Caltanissetta figurano nel registro degli indagati, accusati di depistaggio delle indagini già nel lontano 1992. Quel che appare evidente, in una vicenda a tal punto intricata, è il collegamento che sussiste fra le stragi e la trattativa Stato-mafia, ossia le negoziazione tramite la quale le più alte cariche dello Stato acconsentirono ad attenuare la lotta alla criminalità organizzata, in cambio della fine delle uccisioni. Per dirla in altri termini, una vera e propria rinuncia da parte dello Stato di fronte al ricatto di Cosa Nostra – ricatto a cui  né Falcone né Borsellino vollero mai cedere.
Oggi, 28 anni dopo la strage, quel che occorre sottolineare è l’eroismo e la determinazione di queste persone, che morirono perché, banalmente e tristemente, stavano facendo il proprio lavoro.
Morirono per non piegare la testa e non sottomettersi, morirono per dimostrare che quella porzione di Stato da loro rappresentata aveva ancora una speranza per cui lottare. La speranza di un futuro in cui chiunque non rispettasse le leggi venisse punito; e la speranza di un futuro in cui a regnare non fossero la paura e la sottomissione, ma la temerarietà e il coraggio di combattere, di far sentire la propria voce.
Perché, come Borsellino stesso ci ha tramandato, “È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.

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