30 anni dal delitto di Via Poma: un mistero che resta ancora senza un colpevole. I familiari di Simonetta Cesaroni chiedono di riaprire le indagini
Simonetta Cesaroni aveva solo 21 anni quando è stata brutalmente uccisa nell’ufficio dove lavorava come contabile, presso la sede dell’ A.I.A.G. (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù), a Roma in Via Poma 2, dove si recava due volte a settimana per arrotondare lo stipendio durante l’estate.
Quel pomeriggio del 7 Agosto 1990 Simonetta si reca in ufficio alle 15 e 30, alle 17.30 telefona ad una sua collega di lavoro che sarà poi l’ultima persona che ufficialmente avrebbe sentito la sua voce.
Da quel momento in poi il silenzio. La ragazza un’ora dopo avrebbe dovuto telefonare al suo titolare per aggiornarlo su questioni di lavoro ma non fece mai quella telefonata, e non tornò neanche mai più a casa.
Quella stessa sera i familiari di Simonetta, non avendo notizie si recano in Via Poma alle 21 e 30 per controllare, preoccupati di non averla vista rientrare a casa senza avvertire nessuno, suonano il campanello dell’ufficio ma non risponde nessuno, finalmente alle 23 e 30 con l’aiuto del portiere dello stabile riescono ad entrare trovandosi davanti la macabra scena del delitto.
Simonetta giaceva a terra, nuda, le erano rimasti soltanto un paio di calzini bianchi e il reggiseno che era stato tirato giù lasciando il seno scoperto, il top che indossava quel giorno era stato lasciato appoggiato sul ventre come a voler coprire le numerose ferite da taglio. Gli altri vestiti, compresi gli slip erano scomparsi, così come i gioielli e le chiavi dell’ufficio, il viso è tumefatto e il corpo flagellato da 29 coltellate, molto probabilmente inferte con un tagliacarte, e presentava inoltre un vistoso morso sotto al seno.
Simonetta Cesaroni è morta tra le 18 e le 19.30, a causa delle ferite che le hanno causato una enorme perdita di sangue, ma stranamente non vengono ritrovate significative tracce ematiche all’interno dei locali di Via Poma, era chiaro che qualcuno aveva ripulito la scena dell’omicidio.
La polizia ipotizza da subito il delitto a sfondo sessuale compiuto da qualcuno che Simonetta conosceva bene a tal punto da farlo entrare mentre era sola sul luogo di lavoro, un uomo che avrebbe tentato l’approccio sessuale e poi una violenza dalla quale la ragazza avrebbe cercato di difendersi provocando così l’atroce rabbia del suo aggressore. Le indagini avranno come protagonisti principalmente tre sospettati: il portiere dello stabile, il figlio di un architetto che aveva lo studio nello stessa scala dell’ufficio dove lavorava Simonetta, e infine il suo fidanzato, tutti e tre gli indagati saranno successivamente scagionati lasciando ancora il mistero sulla morte della povera ragazza, un giallo che ancora non ha colpevole dopo 30 anni, e che per la famiglia resta ancora una ferita aperta.
Il Giallo di Via Poma, i principali sospettati e i misteri irrisolti:
Per riuscire a svelare l’identità dell’assassino di Simonetta Cesaroni, la procura di Roma indaga su più persone che potevano essere collegate in modo diretto con la ragazza, il primo ad essere indagato è Pietro Vanacore, il portiere dello stabile di via Poma, era stato proprio lui ad affermare durante gli interrogatori di non aver visto entrare nessuno quel pomeriggio, ma egli stesso non possedeva un alibi durante l’orario dell’omicidio, inoltre vengono trovate delle macchie di sangue sui pantaloni dell’uomo, e il fatto che il portiere fosse in possesso delle chiavi dell’ufficio di Simonetta fa subito pensare che avrebbe avuto tutto il tempo di tentare la violenza e successivamente uccidere la ragazza ripulendo poi lo studio. Ma Pietro Vanacore viene quasi subito scagionato, a suo favore principalmente l’esame del DNA sul sangue nei suoi vestiti che non coincideva con quello di Simonetta.
Il portiere però quasi sicuramente nascondeva un segreto, alla luce di tutte le indagini fatte è quasi sicuro che anche se non era l’assassino, avrebbe però visto qualcosa o qualcuno quel giorno senza mai parlarne con la polizia, questa tesi è avvalorata dalle parole che lascia scritte su un bigliettino prima di suicidarsi gettandosi in mare, a 10 anni dall’omicidio “Vent’anni di sospetti ti portano al suicidio”, una frase che fa pensare che molto probabilmente l’uomo avrebbe ricevuto pressioni o minacce da qualcuno per tutta la durata delle indagini.
Il secondo sospettato è Federico Valle, il nipote di un architetto che aveva lo studio all’interno dello stesso stabile di Via Poma, ad un anno dall’omicidio la polizia riceve una telefonata da un pregiudicato che rivela di conoscere l’identità dell’assassino accusando proprio Valli, riferisce che il giovane sarebbe rincasato sporco di sangue la stessa sera del delitto e che avrebbe ucciso Simonetta perchè colpevole di avere una relazione extraconiugale con suo padre. Ma anche per Valle le indagini si concluderanno presto, infatti il ragazzo viene subito scagionato grazie alla carenza di prove a suo carico e soprattutto l’esame del DNA incompatibile con quello sulla scena del delitto.
Infine le indagini si concentrano su quello che poteva inizialmente apparire come indiziato n.1, il fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, i due all’epoca ventenni avevano una relazione burrascosa, la stessa Simonetta scrive in un diario di voler lasciare il fidanzato perchè aggressivo e violento. Busco ha sempre sostenuto la teoria del suo alibi di ferro, ma quando l’inchiesta si concentra su di lui emergono particolari importanti, primo fra tutti l’esame del DNA che era compatibile sia con le tracce trovate all’interno dell’ufficio sia sui vestiti di Simonetta, inoltre un esperto forense analizzando il morso sotto al seno sinistro rinvenuto sul cadavere della ragazza lo ritiene compatibile con la dentatura di Busco. Da qui la condanna in primo grado a 24 anni di carcere, nel 2011; sentenza ribaltata completamente solo un anno dopo in quanto, secondo i difensori di Pietro Busco, le prove a suo carico sarebbero state scientificamente inconsistenti, viene quindi scagionato ed assolto definitivamente.
L’assassino di Simonetta Cesaroni resta dunque ad oggi, dopo 30 anni ancora libero, e senza nome.
I familiari della ragazza continuano a chiedere la riapertura delle indagini, accusano la procura di Roma di aver lasciato troppi dubbi ancora aperti e di non aver saputo far luce sulla vicenda indagando sommariamente, ma il problema è anche che nel 1990, non c’era ancora la precisione che abbiamo oggi nell’analizzare le prove scientificamente, gli esami del DNA, ad esempio, avevano un largo margine di errore e non si sono potuti neanche esaminare i tabulati telefonici per verificare effettivamente le telefonate partite dall’ufficio di Simonetta in quel pomeriggio.
Restano dei misteri e incongruenze sulle quali la polizia non si sarebbe mai concentrata a fondo, come il non aver mai indagato approfonditamente su Salvatore Volpone, il datore di lavoro di Simonetta che quel 7 Agosto era insieme ai familiari della vittima a scoprire il delitto, e aveva dichiarato di non sapere dove esattamente si trovasse l’ufficio di Via Poma, un fatto alquanto strano, come anche le numerose telefonate anonime che riceveva Simonetta sul lavoro e delle quali raccontò solo alla madre. Una serie di indizi, ipotesi, dubbi che non sono mai stati chiariti.
Sulla scena dell’omicidio c’erano tracce di DNA riconducibili a tre uomini diversi, ma ancora oggi non si è riuscita a trovare l’identità di colui che ha assassinato Simonetta Cesaroni.
Il delitto di Via Poma non deve rimanere tra i tanti gialli irrisolti che hanno riempito le cronache degli ultimi trent’anni, la famiglia chiede verità.
Recentemente anche Antonio Del Greco che all’epoca del delitto era a capo della sezione omicidi della questura di Roma, ha mostrato tutta l’amarezza che resta dopo i numerosi falliti tentativi di trovare l’identità del colpevole e in una recente intervista ha dichiarato: “non aver dato il nome all’assassino di Simonetta è il grosso rammarico che nutro nei suoi confronti”.