“Ha resuscitato le mie figlie”
Queste sono le parole di ringraziamento rivolte dalla mamma delle due gemelle siamesi, Ervina e Prefina, al responsabile dell’equipe medica Carlo Marras. È infatti solamente merito di quest’ultimo, coordinatore di un’unità composta da 30 persone (tra infermieri, medici e chirurghi), se l’impossibile è “divenuto realtà”.
Un’operazione complessa, svolta in 3 fasi – l’ultima della durata di ben 18 ore -, e soprattutto senza precedenti nella storia della medicina italiana. Le due pazienti presentavano una situazione clinica rarissima, essendo craniopagi totali, ossia unite a livello cranico e a livello del sistema venoso. L’intervento, strutturato con le più innovative tecnologie, ha richiesto quindi un’elevata dose di competenza e di organizzazione, ed è stato altresì accompagnato da rischi, che al momento sembrano esser stati sventati.
Il percorso di Ervina e Prefina ha inizio nel luglio del 2018, quando Mariella Enoc, presidente del Bambino Gesù di Roma, durante una missione in Centrafrica, fa la conoscenza delle due gemelle, decidendo di portarle a Roma per permettere ad una squadra medica di seguire il loro caso con i migliori strumenti. Le pazienti, che hanno recentemente compiuto i due anni di vita, presentavano fin da subito personalità diverse; affinché esse si conoscessero e venissero riconosciute veniva perciò utilizzato un sistema di specchi. Da quel momento in poi, gli esperti non hanno mai smesso di lavorare al caso.
La questione più critica riguardava la rete di vasi sanguigni che le pazienti condividevano in più punti: intervenire in quell’ambito comportava infatti un alto rischio di ischemie ed emorragie cerebrali, e per tale motivo la fase preparatoria all’intervento si è basata su un modello in 3D rappresentante la scatola cranica delle bambine. Il fine era quello di arrivare a costruire due sistemi venosi indipendenti, in grado di contenere tutto il carico di sangue dal cervello al cuore. Giunti a questo punto, sono poi state effettuate le 3 operazioni: la prima a maggio 2019, la seconda a giugno 2019, e l’ultima a giugno 2020, la quale ha condotto alla separazione definitiva.
A rendere straordinario l’operato del Bambino Gesù è inoltre il fatto che un simile intervento è stato realizzato solamente due volte, ed entrambe a Londra; anche in questo caso, la separazione dei gemelli craniopagi totali è avvenuta con successo.
Attualmente, Ervina e Prefina sono ancora sotto osservazione, e stanno affrontando un percorso di riabilitazione che le porterà a condurre una “vita normale”.
Per quando concerne il lavoro svolto dall’ospedale, invece, sono giunti esclusivamente commenti di approvazione e di lode nei confronti dell’equipe. Erminia, la mamma delle gemelline, ha mostrato enorme riconoscenza verso tutti coloro che hanno preso parte alla vicenda, augurandosi che le sue figlie possano un giorno studiare Medicina e curare anch’esse altri bambini. Le congratulazioni sono inoltre arrivate dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, così come dall’assessore alla Sanità Alessio D’Amato, entrambi orgogliosi di questo “miracolo” tutto italiano.
Da ciò che si evince tramite il web ed i canali social, anche i cittadini italiani si sono rivelati entusiasti dell’impresa realizzata dagli
operatori. Gli elogi elargiti riguardano, in particolare, i progressi medici che hanno permesso l’intervento, e l’immagine positiva di un’Italia che genera salvezza.
Tuttavia, neanche di fronte ad una così grande celebrazione di vita sono mancati dei commenti razzisti, a sottolineare quanto, sotto altri punti di vista, abbiamo ancora da imparare. Tali commenti esprimono stoltamente l’idea che le gemelline siano state curate con tanto interesse solo perché “straniere”, in quanto un simile trattamento, a detta di queste persone, non sarebbe mai stato riservato a dei cittadini italiani.
La domanda che sorge spontanea è perché, in una situazione del genere, ci si possa arrogare il diritto di contestare non tanto la medicina, quanto i pazienti a cui essa si rivolge. O meglio: il salvataggio di due vite non è un risultato da celebrare sempre e comunque, senza tirare in ballo i “se” o i “ma”?
È evidente che, nonostante queste piccole-grandi vittorie, la strada da percorrere per una medicina che “salvi davvero” è ancora lunga. E questo per il semplice fatto che i primi medici, nella vita di tutti i giorni, dovremmo essere noi: disposti alla cura e all’aiuto nei confronti del prossimo, indipendentemente da fattori di sesso, razza o religione.