‘Favolacce’: la “fiabaccia” amara che avevamo bisogno di inghiottire

Favolacce

 

Damiano e Fabio D’Innocenzo reduci dal loro primo film “La terra dell’abbastanza”, (2018), per il quale si sono segnalati ai Nastri d’Argento con il premio per la miglior regia esordiente, si confermano quindi, con ‘Favolacce’, due autori audaci e preparati a cui forse era ora di dare spazio.

Come il titolo stesso richiama, si tratta della drammatica trasposizione, “fantastica” se si può dire, della nostra società, poiché a parlarne è proprio un’adolescente, il cui diario interrotto viene ritrovato dal narratore.

La favolaccia descritta nel diario è sconsigliata a chi ha difficoltà ad approcciarsi alla ferocia e al grottesco della realtà. Un mortificato Max Tortora, voce narrante, ci preannuncia così la narrazione di un diario che per quanto amaro è comunque necessario raccontare:

“Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”.

Il narratore desolato chiede scusa alla nostra sensibilità, ma prosegue nella sua narrazione sincera e dissacrante del sottotesto che tanto avevamo paura di ascoltare.

I gemelli D’Innocenzo due autori giovani (classe 1988) riappaiono finalmente sul panorama cinematografico italiano per la seconda volta,

con un lavoro certosino ed entusiasmante.

Come due grandi artigiani, riescono a nascondere la complessità del proprio lavoro dietro a soluzioni apparentemente semplici e fanciullesche.
Il dramma è infatti ambientato in una “fantastica” provincia costellata di villette a schiera e campi sterminati da locus amoenus, che intrappola personaggi e trama.

Quest’ultima è molto semplice, all’interno di queste casette di bambole, siamo accompagnati nell’analisi grottesca di una società decadente e stanca. Le varie famiglie, i cui destini s’intrecciano internamente all’architettura del film, vanno a comporre le varie sfumature di un’umanità schiacciata dall’incomunicabilità e dal disagio. Tutte a modo loro sembrano condividere la stessa gabbia senza via d’uscita; ognuna con il proprio equilibrio illusorio, retto solo da un irritante perbenismo e da un falso senso di comunità. Il tutto immediatamente smascherato da scatti d’ira e violenze psicologiche a danno dei più giovani, che oltre a prenderne atto ne fanno un modello incosciente.
La periferia cristallizzata nel verde della natura, colonna sonora imprescindibile di quasi ogni scena, fa da sfondo a personaggi caratterizzati abilmente, grazie all’uso di un dialetto romano biascicato e oltremodo veritiero. 

Villette a schiera, mercatini dell’usato nel vicinato e famiglie aggregate e vicine solo per ipocrisia, sono la strozzatura attraverso cui i 
personaggi dagli adulti, agli adolescenti, vorrebbero uscirne vincitori. Ma non è solo degrado ciò che vediamo, gli unici coscienti dello squallore che li ha intrappolati, sono appunto gli adolescenti e il loro professore di chimica, l’unico a cui sembrano dare ascolto. 

Quest’ultimi non per questo però, sono esenti dallo sguardo truce della regia, che sceglie accuratamente di soffermarsi su di loro con dei primi piani, solo negli istanti in cui la narrazione sembra toccare le loro emozioni sincere.
Non a caso nella scena memorabile in cui uno di essi rischia di affogare, la camera si tiene a debita distanza. Riconosciamo gli attori in scena muoversi come in un tetro spettacolo, la cui risoluzione è affrettata dagli scatti emotivi del personaggio di Elio Giordano.

La pochezza dei dialoghi rende ogni inquadratura funzionale alla narrazione. Come i primissimi piani che spingono la macchina a indagare nell’intimo dei personaggi, e nei campi larghi, in cui prende le distanze dalla realtà rarefatta.
L’alternanza tra campi larghi e stretti lungo tutta la pellicola non fa altro che dilatare e restringere la nostra conoscenza dell’orrore che riesce a dispiegarsi solo nel finale.

Un finale che arriva dritto al cuore come una punizione, per tutte le azioni sconsiderate mostrate fino a quel punto.

Azioni che grazie allo sguardo lento e distante della camera abbiamo avuto modo di analizzare e forse di riconoscere come anche nostre. Appunto con un inverosimile rewind, si rimettono in ordine le linee parallele di una narrazione innovativa per il nostro cinema.
Come ogni favola siamo quindi costretti a rapportarci con la sua morale e spinti a una riflessione sottile che richiede coraggio.
La sceneggiatura, infatti premiata al Berlinale 2020, è efficace nel restituire la complessità del reale attraverso il perfetto incastro di linee narrative parallele, i cui riferimenti temporali e spaziali sono difficili da individuare.

Una storia senza tempo e senza luogo, una fiaba forse, che spaventa proprio per la facilità con cui può essere confusa con la realtà. I gemelli D’Innocenzo prepotentemente convincono e strameritano, con un’opera sottile e aggressiva che non può lasciare indifferenti.

Siamo una realtà indipendente
che
non riceve nessun tipo
di finanziamento.
Aiutaci a realizzare il nostro sogno,
dona anche tu

Siamo una realtà indipendente che non riceve nessun tipo
di finanziamento.
Aiutaci a realizzare il nostro sogno,
dona anche tu

Siamo una realtà indipendente
che
non riceve nessun tipo
di finanziamento.
Aiutaci a realizzare il nostro sogno,
dona anche tu

futuranews

Iscriviti alla nostra Newsletter:
per te tante sorprese!