Intervista a Francesco Zagaglia, leader degli ‘Zio Pecos’

Zio Pecos

Intervista a Francesco Zagaglia degli ‘Zio Pecos’: una storia di musica e passione
“I Pecos hanno una dote che li distingue: appassionano”. E se parliamo di musica, la passione non può certamente mancare. Ma appassionare (ossia riuscire a coinvolgere e ad entusiasmare un pubblico che ascolta) richiede qualità, una caratteristica che non tutti possiedono.
Le parole sopracitate sono del direttore di Musicultura Piero Cesanelli, e sono rivolte alla band osimana “Gli Zio Pecos”, la quale, nell’edizione 2019 del festival, ha ottenuto il Premio di gradimento del pubblico.
Il gruppo nasce nel 2007 dall’iniziativa di 4 artisti: Francesco Zagaglia (voce e chitarra), Thomas Bellezze (chitarra), Nicola Emiliani (batteria) e Luca Pucci (contrabbasso); dal 2018, completa la formazione Luca Gatto al sintetizzatore.
Una strada in salita, quella dei Pecos, e tuttavia percorsa con gran determinazione. Dai primi concerti all’incisione dell’album di esordio Tribù (2011), in cui gli artisti si muovono tra il folk e il blues. Il 2012 è l’anno di Oppure no, seconda raccolta della band, seguita dall’album live Quattro birre per favore (2015). A coronare la discografia giunge infine, nel 2018, Dentro le cose,  le cui canzoni, come si estrapola dal sito ufficiale, “narrano temi profondi con la leggerezza di sempre”. Parallelamente al raggiungimento della notorietà arrivano i meritati riconoscimenti: il Premio del Centro studi Franco Enriquez, le collaborazioni con varie agenzie musicali, e l’approdo nei più seguiti canali e piattaforme web. I progetti che li hanno come protagonisti sono molteplici.

I tour divengono rapidamente sold-out, i concerti a teatro fanno il “tutto esaurito”. La loro arte si mescola con quella di affermati personaggi dello spettacolo (uno su tutti, Niccolò Fabi), ed i singoli iniziano ad essere trasmessi nelle radio italiane.
Grazie alle parole di Francesco Zagaglia, leader del gruppo, è possibile osservare più da vicino il colorato ed accattivante mondo di questo gruppo così “fuori dagli schemi”.
Francesco, come è nata la tua passione per la musica, e a partire da quale strumento?
Mio padre suonava la chitarra per hobby, accordava i pianoforti per lavoro. Non ricordo questi momenti perché fui io stesso, dicono, a distruggere la sua chitarra. Tra l’altro lui non ostentava il suo saper suonare, né mi forzava. Ma molto spesso la passione si respira, o forse è nei geni.  Ricordo che quando lo ascoltavo mi emozionavo. Era tanta la passione e l’attenzione che mettevo nell’ascolto, mi restava facile cantare intonato e trovare le note giuste sulle tastiere giocattolo. Mio padre, sentendomi, disse: “Guarda che sei forte. Dovresti andare a lezione.” Iniziai così scuola di pianoforte, passando poi alla chitarra, e successivamente studiando canto.

Quando, assieme agli altri membri della band, avete deciso di trasformare la vostra passione in un vero e proprio mestiere?
È una band particolare. Non conosco un momento in cui non ci siamo divertiti a suonare insieme. Probabilmente avremmo suonato insieme tutta la vita, anche solo per divertimento. Ad un certo punto, comunque, dopo alcune esibizioni pubbliche, sono arrivate un sacco di richieste per serate musicali. Abbiamo capito che poteva diventare un’attività. Ognuno ha lasciato il lavoro che aveva per fare il musicista. Io fui il più fortunato. Non rischiavo niente: finiti gli studi, avevo pronto un lavoro a cui dedicarmi.

Il vostro ultimo album si intitola Dentro le cose (2018), ed ha l’obbiettivo di “trattare temi più profondi rispetto ai vecchi album, ma con la leggerezza di sempre”: come avete combinato profondità e leggerezza nelle canzoni?
Crediamo profondamente che l’arte sia una rappresentazione della realtà, che aiuti a capire la realtà stessa. Per il vero dramma, c’è già la vita vera. È bene, quindi, che nell’arte, trattando qualsiasi tema, anche il più profondo, il fine sia comunque quello dell’intrattenimento, e che l’ascoltatore passi un momento piacevole. Cerchiamo di abbinare leggerezza e profondità lavorando sulla scelta giusta di lessico e di melodia, per alleggerire anche gli argomenti più seri.

Il dialetto marchigiano si è sempre dimostrato per voi un essenziale mezzo di comunicazione: avete riscontrato apprezzamento da parte del pubblico? E soprattutto, è stato difficile, nel corso degli anni, mantenere salde le vostre radici?
Non abbiamo mai cercato di mantenere qualcosa, o di seguire un filone. La vera essenza del progetto Zio Pecos è stata quella di divertirci, senza troppe gabbie di genere. Per fortuna siamo pieni di idee e progetti. C’è posto per il dialetto, che è il modo più spontaneo per esprimersi, e che nella nostra regione è molto apprezzato. Lo proponiamo nelle situazioni più intime. C’è posto per le composizioni in italiano, che trovo intriganti perché le parole tronche sono poche, e mi resta più difficile farci del rock. Ci permette di parlare a un pubblico più ampio e ci ha fatto ottenere riconoscimenti. Poi il pubblico è vario: magari alcuni preferiscono i brani ironici, altri le serate più composte a teatro. Stando insieme da tanto tempo abbiamo un repertorio molto vasto che ci consente di avere sempre la giusta canzone per ogni contesto. Non tradendo noi stessi, componendo nel modo che più ci piace in un determinato momento.

Attraverso la vostra musica, quali aspetti cercate di cogliere della realtà, e quale messaggio desiderate comunicare a chi vi segue?
Solitamente ci piace raccontare dinamiche psicologiche, viaggi introspettivi e storie di ragazzi come noi, fotografie della nostra società. Cerchiamo anche di scovare bellezza, dato che sembra che siamo saturi di canzoni tristi e di parole negative. Vorremmo che le canzoni aiutino a sentirsi meglio, sia perché ci si riconosce in esse, sia perché portano un momento di svago.

Se dovessi scegliere un momento o un episodio della tua carriera che ricordi particolarmente, quale sceglieresti?
Abbiamo ricevuto un premio nel 2010 per le nostre canzoni. Era un premio nazionale e c’era molta gente famosa. Ne abbiamo ricevuti anche altri, ma in quel momento abbiamo compreso di avere le carte giuste per fare musica, e per realizzare qualcosa di qualitativamente buono.

Negli ultimi anni ti sei cimentato anche nella scrittura, pubblicando L’ultimo colpo (2016), Strade (2017) e Sdrammaturgia (2019). Cosa avvicina scrittura e musica, secondo la tua esperienza?
Scrivere in generale è un modo per ricrearsi. Pubblicare ciò che si è scritto ha un intento partecipativo, significa voler dare input, spunti di riflessione. Scrivere testi abbinati a una musica è diverso dal comporre un testo letterario. Ma si tratta sempre di parole. Nella canzone la parte musicale scandisce un ritmo, e quindi una regolarità che aiuta a trovare gradevolezza all’ascolto. Nello scrivere è tutto sulle spalle delle parole. Anch’esse sono composte da accenti e ritmi. Io ad esempio ricerco molto la musicalità nella parola, a volte a discapito della comprensione del messaggio. Ma un testo artistico non è un testo politico o scientifico. È un modo per intrattenere, per cui l’aspetto estetico della parola deve essere in primo piano.

Quali sono i futuri progetti della band?
Oltre all’attività live, abbiamo un album molto carino che stiamo portando a termine. Lavoriamo sui suoni per produrre un disco originale e di qualità.

Un percorso che si rivela contraddistinto da impegno e passione, dunque, quello raccontato da Francesco. La passione nei confronti di un lavoro che, oltre a soddisfare personalmente, riesce ad arrivare forte e chiaro al cuore del pubblico che segue questa band. Ma soprattutto, riesce a scatenare ciò per cui si dovrebbe vivere: le emozioni.
E il cammino dei Pecos è solo agli inizi.

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